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LUIGI LORENZI:
UNA RICERCA DI VALORE
PIETRA E MAIEUTICA
<<Tu non fai delle cose se non le hai dentro di
te>>.Un pensiero lapidario, proprio come la materia
che Luigi Lorenzi tiene tra le mani da oltre trent’anni.
Un pensiero che sa di rapporto intimo con la pietra, il
legno, il metallo. Un pensiero che racchiude e custodisce
gelosamente, più che ogni segreto meramente tecnico,
il sottile legame che lega lo scultore alle sue opere.
Del resto la scultura è così: una scoperta,
una conquista continua, una sfida, una relazione amorosa
con la materia e le sue asperità, dominate lentamente
attraverso la fatica e una fervida volontà di ricerca
della verità che la materia stessa cela al suo
interno. Non è un semplice atto di 'inventio',
ma di 'invenio', cioè di ritrovamento della realtà
celata agli occhi dei più dalla pietra o dal legno
non ancora addomesticati con il pensiero e il lavoro.
Luigi Lorenzi parte da questi asserti. Si scopre scultore
una domenica, come egli stesso fieramente racconta: <<E’
una domenica come tante mi trovo in campagna nella casa
dove sono nato, osservo una piccola pietra e lì
vicino ho un banco da lavoro con attrezzi, tra cui uno
scalpello da muratore e un martello. Decido di intervenire
per portare alla luce quello che intravedo nella pietra
ed è così che nasce la mia prima scultura
“Soccorso” è il 1978. Scopro così
il piacere e la soddisfazione nella creazione di qualcosa>>.
È la materia che lo sceglie, dunque. Una pietra
che nasconde due figure lo spinge ad accettare la sfida
di liberare un soggetto. <<Io amo la materia dura>>
dice lo stesso Lorenzi, che prende la pietra e se la porta
a casa. Si compie così l'elezione. Non si diventa
artisti, infatti. Si nasce. Si viene scelti dalla materia
e guidati dall'idea. Poi a mano a mano si affinano le
tecniche, attraverso lo studio, il lavoro, l'elaborazione
del pensiero e la sofferenza, sia fisica che interiore.
Tutte tappe che Luigi Lorenzi ha attraversato nel corso
di una vita consacrata al lavoro e alla ricerca continua
e che non gli hanno risparmiato la moneta dell’incomprensione
e del fallimento. Un po’ per il suo carattere poco
incline ai compromessi, un po’ per la scelta dell’astrazione,
che Lorenzi considera obbligatoria in virtù di
una caratteristica che egli individua come intrinseca
all’arte: l’ambiguità. <<L’opera
di per se stessa è ambigua.. come può dunque
essere figurativa?>> dice. E così la strada
è presto segnata. La prima opera si intitola non
a caso Soccorso. È il 1978; Lorenzi sente la necessità
di dare libero sfogo a un desiderio innato di creare qualcosa
di originale. Due figure che si sostengono: ecco ciò
che vede in un blocco rinvenuto casualmente. Scorrono
gli anni d’esordio: un periodo in cui se da un lato
si fa sempre più forte la domanda di espressione,
dall’altro si sollevano incessanti i dubbi portati
dal vento delle convenzioni: <<Come può un
artista essere tale se non ha frequentato l’Accademia?>>.
Per fortuna la spinta a sfidare le leggi della fisica
è più forte e ha la meglio nel tempo su
qualunque condizionamento. Ricorda lo stesso artista:
<< Negli anni successivi vincerà in me la
curiosità intima di capire dove sarei arrivato
con una ricerca basata solo sulla mia cultura, sensibilità
e capacità esecutiva, lasciandomi trascinare nella
scuola del fare e del saper guardare>>.
Lorenzi esplora ancora e ancora l’arenaria, sempre
lavorando per via di levare alla liberazione di due figure
strettamente legate l’una all’altra. Nel 1979
realizza Ultimo abbraccio, anche qui arrivando a regolare
la pietra con un intento prettamente escatologico. La
materia, però, è quanto di più vario
esista e subito l’artista pone mano a nuove sperimentazioni
approcciando, negli stessi anni, il legno e il metallo.
Si viene a definire in tal modo e praticamente fin da
subito, la triade che Lorenzi eleggerà come componente
radicale della propria poetica. Del resto basta gettare
un’occhiata nel suo laboratorio per comprendere
quanto incessante nel tempo sia stata la sua pretesa di
risposte da legni come il faggio, l’ontano, il ciliegio
e l’iroko, o la robinia che <<praticamente
è dura come un osso e ben si prestava alle prove
di forza cui mi sottoponevo>>, o dall’acciaio
e ovviamente da numerosissime altre pietre tra cui quella
di Varana, strettamente legata al suo territorio e tra
le sue preferite. Mentre la sete di sperimentazione approda
a questo ventaglio di materiali, l’astrazione in
qualche caso cede alla figurazione: una dicotomia tornata
anche negli anni 2000 e che, se letta in filigrana, interessa
principalmente i momenti più complessi dell’opera
dell’artista. Quelli caratterizzati, come si è
detto, dall’incomprensione e dal senso di fallimento.
Sul finire degli anni Settanta e all’esordio del
nuovo decennio Lorenzi realizza alcuni pezzi figurativi
a creta e si cimenta anche nel disegno, un po’ per
esorcizzare la sua formazione da autodidatta e un po’
per orientare l’attenzione sul tratto che lo porterà
a definire spazi e volumi nel periodo successivo, con
la stessa cura di un demiurgo. Si tratta da un lato di
prove di figurazione, dall’altro di ‘trattatelli
sulla linea’ che successivamente convergeranno in
un solido corpus di schizzi per sculture, talune mai realizzate,
ma che tuttavia nell’ultimo periodo diventeranno
naturale estrinsecazione della sua poetica. Vi è
da rilevare, infine, quanto sia importante anche su questo
versante l’impiego delle tecniche miste su carta
o cartoncino, a voler sottolineare che la materia pura
talora non è l’unica via per esaudire la
forza dell’idea. Una intuizione, questa, che si
rivelerà determinante soprattutto nell’ultima
fase della carriera e soprattutto in occasione di crisi
cicliche in cui la materia, apparentemente silente, lascia
spazio alla meditazione su altri supporti, sempre trattati,
però, con una tecnica che in fondo rivela la naturale
propensione dell’artista per la terza dimensione.
CHIUSO E APERTO
Gli anni Ottanta portano in Lorenzi una progressiva maturazione
delle linee e dei criteri di organizzazione spaziali ed
esecutivi. La scultura estrinseca sempre un pacifico rapporto
dialogico tra figure, in ricerca tra loro come in Amore,
o talora più controverso e tormentato, declinato
dall’artista con una chiusura progressiva dei volumi
per lasciare solo lievemente trasparire la tragedia umana.
Testimonial di questa strategia espressiva è Lotta,
opera in sasso serpentino del 1982, dove le superfici,
pur nella contorsione dei corpi e dunque nella rappresentazione
di un atto a prima vista violento, non sono mai aspre,
ma anzi cercano di assecondare lo spazio circostante determinandone
una armonia di fondo. Una sensazione analoga si prova
anche in presenza della coeva Dramma: l’emozione
che dovrebbe rendere l’atto struggente e turbare
l’osservatore di fatto si stempera quasi in un abbraccio.
Le mani delle due figure liberate dalla pietra non appaiono
contratte, ma al contrario abbandonate a una gestualità
che è più di mutuo sostegno che non di tragedia.
L’intento dell’artista è quello di
sottolineare la segretezza del vero dramma interiore delle
due figure che si consuma in una dimensione profonda,
inaccessibile all’esterno, come fosse custodita
gelosamente dalla materia. Le figure in queste prove appaiono
volutamente incomplete, a dire che l’essere uomini
non è un fatto di mera forma, ma di contenuto,
che qui riflette lo smarrimento esistenziale. Guarda caso
lo stesso in cui l’artista piomba quando non riesce
a trovare la propria via espressiva. Da notare che nonostante
questa ansia metafisica venga richiamata in tutti i lavori,
è comunque bandita nella scultura di Lorenzi qualsiasi
forma di eccesso emotivo e di azzardo spaziale, in virtù
di una scelta sempre pacata e discreta che invita l’osservatore
più alla meditazione che non alla reazione. Ciò
viene suggerito appunto anche da Meditazione, del 1982,
in cui l’autore modella la pietra arenaria di fiume
in forma rituale, quasi lo stesso atto creativo trovasse
la propria esplicitazione nella meditazione progressiva
sui processi evolutivi interiori e nella definizione delle
forme date alla materia. La figura che appare ripiegata
su se stessa non è costretta, nonostante essa appartenga
al periodo cosiddetto delle ‘figure chiuse’,
ma piuttosto, come suggerito dalle linee dolcemente tracciate,
è colta in un momento di profonda riflessione con
aperta sfida all’equilibrio: leggermente protesa
in avanti e al contempo poggiata al suolo l’opera
trasferisce nell’osservatore quel lieve
senso di precarietà che rimanda al dolce smarrimento
di chi sa di essere della terra e di appartenere anche
al cielo. Ciò è chiaro pure in Il pensiero
in pietra arenaria di fiume, quest’ultima utilizzata
dal College of Europe di Bruges come cover back del volume
Culture: Building Stone for Europe 2002, in un periodo
quindi recente. Il dato consente di aggiungere una ulteriore
riflessione rispetto alla poetica di Lorenzi: temi, ricerche
e modalità espressive non si sviluppano mai in
senso cronologico, ma sono oggetto di continui richiami
e superamenti. Il processo di scoperta del sé non
è così automatico, lineare e rapido e l’artista
spesso si infrange contro la delusione della difficoltà,
dell’incomprensione, dell’isolamento. Il pensiero
non riesce a essere ‘capito’ (con l’accezione
volutamente latina di càpio, afferrare) e fugge
contribuendo così alla disgregazione della persona.
Un’idea che non trova attuazione nella materia provoca
di conseguenza l’effetto di distruggere la forma.
È quanto accade in Pensiero che fugge, del 1982,
opera che apre a una nuova felice intuizione di Lorenzi
verso le forme dischiuse e l’utilizzo di altri materiali
che non la pietra. Il ferro, infatti, rappresenta un’interessante
prospettiva per l’artista che perseguirà
per tutta la durata della sua poetica e che, anzi, arriverà
presto a combinarsi con l’amata pietra. In questo
caso l’opera rappresenta un uomo in bilico su un
asse in cui si riconoscono solo le gambe e dove il torso
è già oggetto di un processo di assorbimento
nello spazio. Al di là dell’analisi stilistica
che si può effettuare sugli equilibri lineari,
è chiaro a livello di senso che Lorenzi coglie
come il non riuscire a trattenere il pensiero, a non elaborare
l’intuizione porti a una perdita del sé.
Non sempre negativa, però, dal momento che per
intraprendere nuove strade è necessario mutare
completamente il proprio stato e il proprio punto di vista.
L’apertura delle linee avviene in modo progressivo
e, anche in questo caso, senza traumi, e senza ‘tradimenti’
verso quelle forme chiuse che rappresentano un altro piano
dell’esperienza. Del resto è lo stesso Lorenzi
che dice: <<Nella realizzazione dell’opera
io ricerco la soddisfazione di un bisogno sia interiore
che fisico. Attraverso l’evoluzione degli schizzi
e della lavorazione delle diverse materie arrivo a formalizzare
di volta in volta il mio pensiero. Quasi si trattasse
di un processo di gestazione lenta: la forma chiusa è
il paradigma del feto, mentre man mano che essa si apre
è come se l’indagine sulla realtà
che coltivo nella mia interiorità si aprisse e
venisse comunicata all’osservatore. Così
ogni opera diventa il paradigma della vita>>. La
sperimentazione stessa di più materiali consente
di avvicinare ulteriormente l’esperienza artistica
a quella esistenziale: dalla pietra al ferro verniciato
al legno di castagno; è quanto accade ad esempio
in Danza celeste, opera del 1984 che pare un perfetto
compendio di quanto appena dichiarato. L’impianto
è l’evoluzione di una figura chiusa che idealmente
si libra nello spazio accarezzandolo proprio come accade
al corpo di un ballerino nella fase del volteggio. Il
titolo è emblematico della poetica di Lorenzi:
la danza è ‘celeste’ in quanto il processo
di liberazione della forma nello spazio avviene in uno
scenario di trascendenza nel quale l’opera si muove
e mostra come la vita di ciascun
individuo non possa considerarsi separata da un piano
spirituale.
A esiti analoghi, con sempre maggiore libertà e
rottura degli schemi in sezione aurea verso un verticalismo
convinto, pervengono anche prove come Tango (nella versione
a olio e poi realizzata in legno di faggio). Per tutta
la sperimentazione di questi anni forme chiuse e forme
aperte coesistono in modo naturale nella poetica dell'artista
senza entrare in conflitto, proprio come se si trattasse
di due momenti distinti della ricerca del sé. Il
dialogo si sposta anche dal piano delle forme a quello
della materia: l'apertura dei piani consente di sperimentare
l'ebbrezza di equilibri precari che si estrinsecano in
opere come I grattacieli hanno catturato la luna, in pietra
di Varana e in arenaria di fiume. Una dialettica materica
che diverrà sempre più linguaggio articolato
nell'immediato futuro. In quest'opera appare palese il
tema l'illusione di onnipotenza umana che, appunto, si
esplicita nella fantasiosa cattura della luna (simboleggiante
il piano superiore dell'esistenza, quello al di fuori
del controllo umano), che, invece, nella realtà
semplicemente transita tra gli skyline. Nell'opera di
Lorenzi, intanto, prende corpo con maggior vigore la sfida
dell'equilibrio più spinto.
PACIFICI DIS-EQUILIBRI
Spazio, colore, forme, materia: gli attori sono tutti
presenti. Arriva per l'artista il tempo di esplorarli.
<<Sebbene il gruppo di sculture riconducibili alle
“Forme chiuse” abbia avuto un bel riscontro,
anche critico, ho necessità di progredire nella
ricerca e quindi procedo per trovare forme nuove rompendo
il guscio di queste ultime per portarle allo scoperto;
indicativi sono i disegni dei primi anni Novanta per comprendere
questo nuovo percorso.
Inizia un periodo ricco e produttivo dove le idee sono
molte e variegate e si traducono nel periodo delle “Forme
aperte”, dei “Dialoghi”, ma anche in
sculture con un chiaro timbro astratto>>. Dopo oltre
un decennio di ricerca solitaria nel proprio studio, a
cercare di definire la forma espressiva più consona
per soddisfare il proprio bisogno artistico, Lorenzi decide
di esplorare in modo più ampio il mondo dell’arte,
ricercando mostre da visitare e intessendo una fitta rete
di contatti con altri interpreti. Ne consegue un progressivo
arricchimento lessicale che aggiungerà nuove lettere
all’alfabeto della sua poetica. Se prima bastavano
materia e forma, adesso lo spazio si prende la scena e
fa la sua comparsa il colore. A fare sintesi perfetta
ci pensa una mano capace e sempre più ardita nella
sperimentazione degli equilibri. Fanno la loro comparsa
marmo e granito per l'Occhio del tempo, in cui l'intersezione
degli elementi circolari dialoga incessantemente con il
cromatismo compenetrato degli elementi compositivi, sempre
in equilibrio sul supporto. Il laboratorio dell’artista
si arricchisce anche con la presenza del faggio, protagonista
di una grande stagione produttiva. Il legno, infatti,
anche in creazioni come Maternità, completa il
piano di apertura delle forme, avviando un nuovo capitolo
della poetica dell'artista. Le opere del periodo confessano
una struttura molto legata all’archetipo del cerchio
che comprende lo spazio in un continuo rimando tra pieni
e vuoti. Si assiste inoltre a continui tentativi di apertura
dei confini e di slancio sulla direttrice verticale. Le
composizioni, dunque, dopo una fase introspettiva si aprono
a una nuova dimensione: non percepiscono lo spazio come
vuoto, come ‘nulla’, perché la forma
si fa determinante per la sua individuazione. E’
lo spazio (che è materia) a dare forma all’altra
materia (il legno) che si è aperta. Così
accade in opere come Dialogo difficile o Distacco, a sottolineare,
quest'ultima, il senso della ciclicità della ricerca
e del continuo avanzare della scoperta. Vi è altresì
da sottolineare come le superfici stesse della materia
lignea, come si diceva in prevalenza il faggio, siano
mutate rispetto alla pietra del passato, più scabra
e quasi refrattaria a essere toccata dallo spazio. In
queste prove degli anni Novanta le superfici sono rese
più lisce e quindi accomodanti nella definizione
della materia aerea che appunto avvolge l’essenza,
accarezzandone ogni curva e contribuendo in modo determinante
all’inclusione di un altro elemento, forse prima
meno considerato nelle composizioni: la luce. A partire
da questi lavori appare palese che il linguaggio matura
verso composizioni estremamaente armoniche e leggere che
riflettono uno stato d’animo decisamente meno tormentato
nella ricerca, quasi fosse stato raggiunto dall’artista
un livello di grande serenità ed equilibrio. L’impressione
è che Lorenzi sosti per qualche tempo su queste
prove per mettere sempre meglio a punto la conquista poetica
del periodo, configurandola come un punto fermo di tutto
il lavoro dal quale ripartire per le successive e ancora
ignote esplorazioni. Parallelamente a questa fase di lavoro
condotta sul legno prosegue anche la grande stagione della
pietra di Varana, che rispetto alle prove precedenti si
muove verso l’elaborazione di composizioni dall’equilibrio
assolutamente improbabile. L’intento appare anche
qui chiaro: mentre la liricità delle composizioni
lignee offre all’osservatore la possibilità
di appagare lo sguardo soffermandosi su un lavoro completo
e finito, foriero di armonie esistenziali e di per sé
perfetto, l’approccio alla pietra va invece a risvegliare
i toni della sfida alle più audaci leggi della
fisica. In Il Bacio la preferenza per composizioni che
si appoggiano alla base con un solo vertice e includono
linee più o meno marcate fa correre il pensiero
a quelle esperienze di vertiginosa precarietà che
a volte lasciano segni marcati nella vita, ma che sono
in grado di regalare l’ebbrezza di una diversità
di vedute e di una conquista squisitamente uniche. Ancora
una volta il lavoro di Lorenzi è fortemente autobiografico
e altresì paradigmatico per tutta la parabola umana:
il cambio di colore della pietra sotto l’effetto
della luce, i tagli, la linearità talora spezzata,
la linea curva che si affianca a quella retta, l’elemento
circolare onnipresente possono a tutti gli effetti ricondurre
a momenti di cambiamento più o meno semplici nella
ricerca di senso compiuta da ciascuno. A metà degli
anni Novanta intervengono ulteriori cambiamenti sulle
superfici lignee: curve più plastiche nelle materia
aprono a volumi maggiorati e dunque a una conquista spaziale
e luministica sempre più imponente, a supporto
di una consapevolezza produttiva che si fa sempre più
matura e piena e che aprirà la poetica anche a
prove non più solo di dimensioni ridotte, ma contestualizzabili
nello spazio aperto con la pietra che alla linea spezzata
alterna anche la curva o il concavo e il convesso. È
il caso di Contrapposti: l’invito e Contrapposti:
il bacio.
TESI ANTITESI SINTESI
<<Sono arrivato alla soglia dei cinquant’anni,
con ormai venti di scultura alle spalle, prendo visione
con più consapevolezza di quanto il tempo sia determinante
nelle dinamiche della musica e soprattutto in quelle della
vita di ogni individuo e così realizzo sculture
dove le forme dialoganti si uniscono dando vita ad una
specie di strumento misuratore, quasi a rappresentare
strani pendoli o metronomi. “Tempo prigioniero”
1 e 2, “Fontana del tempo” 1 e 2, “Il
riposo del tempo”, “Il tempo perduto”,
“Dove nasce il tempo”, “Armonia del
tempo”; uso ancora il legno di faggio, ma anche
l’ iroko legno esotico anch’esso con venature
leggere e poco invasive, e con una piacevole sorpresa,
da colore giallo durante la lavorazione, si ossida poi
alla luce assumendo finito una colorazione calda e piacevole
alla vista>>. Sintesi materica e moltiplicazione
delle possibilità compositive. Si apre nell’opera
di Lorenzi, giunta alla sua piena maturità, una
ulteriore fase di ricerca volta all’unione delle
esperienze fino a quel momento condotte. E’ tempo
di bilanci, infatti. Legno, pietra e metallo cercano un
armonico accordo e lo trovano in lavori che proseguono
a grande velocità l’evoluzione spaziale,
luministica e cromatica degli anni immediatamente precedenti.
L’artista introduce nuove essenze come l’iroko
in modo sistematico, giocando così sul contrasto
con l’onnipresente pietra di Varana e con un discreto
accesso del filo metallico che finisce quasi sempre per
raccordare le linee naturalmente concepite nel modellato.
Le due edizioni de Il tempo prigioniero e Fontana del
tempo e della musica, ad esempio, offrono impianti formali
che ostentano equilibri talora spregiudicati (i lavori
si reggono al basamento poggiando su una curva), mentre
dal punto di vista dell’organizzazione spaziale
concedono all’osservatore linee morbide, pacifiche,
che non affrontano in modo drastico la materia aerea,
ma semplicemente la accompagnano nel suo naturale scorrimento
sulle superfici, per lasciare che la luce vi si rifletta
in modo uniforme. A illudere ulteriormente la condizione
di equilibrio precario si ritrova anche la presenza di
una sfera in pietra, materiale con un peso specifico chiaramente
maggiore del legno, ma che essendo posta in sospensione
di fatto si trasforma paradossalmente nell’elemento
più leggero di tutta la composizione. Non a caso
il tema protagonista è il tempo, concetto per gli
antichi da sempre legato allo spazio. E proprio il tempo,
con la sua incertezza da un lato e l’inesorabile
verità di cui è portatore attraverso il
suo scorrere dall’altro, viene qui sospeso antiteticamente
alla sua essenza. L’idea sottesa a questa parte
di lavoro è che le opere di questo periodo manifestano
un grande senso di compiutezza L’esplorazione del
rapporto con il tempo, della ricerca dell’armonia
e soprattutto della sua misura si compie con una nuova
virata verso l’utilizzo della pietra e del filo
inox: siamo a fine decennio e Lorenzi crea Forma-tempo,
Musa del Tempo, Casa del Tempo e Tempo dei sogni. Tutte
prove in cui la pietra di Varana torna a essere indiscussa
musa ispiratrice delle opere nelle quali crescono e si
sviluppano nuove idee di superficie. Esse, infatti, da
lisce, si fanno alternativamente scabre e vengono approfonditi
i rilievi lineari che scandiscono l’area in porzioni
a luminosità diverse. Viene creata una sequenza
continua di rimandi sia lineari che cromatici che generano
nell’osservatore una sana inquietudine in apparente
contrasto con la pace riflessiva appoggiata alla monocromia
della materia. Tale rapporto dialogico è il ‘la’
alla triade tesi-antitesi-sintesi cui approda l’artista
e che si estrinseca contemporaneamente in una dichiarazione
delle leggi della fisica, nella voluta negazione delle
stesse mediante il perseguimento del disequilibrio (cioè
la messa in discussione della certezza) e nella sintesi
del pensiero che porta a un superamento del comune sentire
e quindi dell’interpretazione delle leggi naturali
e degli assiomi come un limite da superare.
L’inizio del nuovo millennio sancisce questa preziosa
conquista ontologica dell’opera diLorenzi come testimoniato
da alcuni altri lavori che ritornano sul legno e che sono
caratterizzate da un progressivo alleggerimento. Sulle
masse si opera un processo per via di levare che porta
allo svuotamento parziale del corpo principale dell’opera
fino a consentire allo spazio di attraversare la composizione.
Accanto all’alleggerimento diviene sempre più
importante la presenza della luce e della materia aerea
stessa che ora
compenetra l’insieme e ne diviene protagonista.
La curvatura e la presenza di fori in Impronte del tempo,
ad esempio, sono una conferma della perizia esecutiva
raggiunta da Lorenzi, ormai in grado pienamente di dare
forma a ogni intuizione, compresa quella di passare a
composizioni in sezione aurea con l’elemento circolare
dominante. A emblema pare opportuno citare Luna nascente
e Luna calante, entrambe del 2008. Opere di piccole dimensioni
in cui il filo inox si accompagna alla pietra non più
come mero raccordo lineare tra le parti, ma come materiale
complementare, determinando una perfetta sintesi tra pieni
e vuoti in una composizione in grado da sola di assurgere
ad apice della poetica dell’artista.
L’ETA’ DELLA CRISI
Chi è l’artista? Un uomo solo. Seduto, in
balia di se stesso a guardare all’orizzonte. Un
uomo senza volto, una silhouette che ha i tratti di chi
ricerca verità senza essere compreso dai suoi simili.
L’artista sperimenta la fatica, l’esaltazione
e la disillusione. Quando l’arte è incompresa
l’artista stesso è incompreso. Una mostra
allestita con grandi sacrifici non porta gli esiti sperati:
dopo il periodo delle conquiste per Lorenzi arriva quello
della sconfitta: <<Mi chiedo se è valsa la
pena aver lavorato tanto e con tanta fatica fisica, non
considerando il male alla schiena per aver manipolato
pesanti sculture o il possibile danno ai polmoni per aver
respirato inevitabilmente polvere di legno, pietra, ferro,
o marmo ed aver speso anche un bel po’ di denaro.
La risposta che mi dò in quel momento è
che non ne valeva la pena. Decido quindi senza pensarci
su troppo di dedicarmi alla pittura, con l’intenzione
di spendere meno denaro possibile; infatti uso come supporto
lastre di faesite e non le tele che ritengo troppo impegnative,
i colori che uso sono solo acrilici, il bianco e il nero
più qualche colorante e barattoli da chilo acquistati
in ferramenta e i pennelli sono i più economici.
Dipingo una serie di quadri che chiamerò “Malinconici
orizzonti” un unico paesaggio desolato e i personaggi
che lo animano, lascio volutamente il centro del quadro
vuoto a volte il fondo lo faccio tipo carta da pacco per
indicarne il “nessun valore”>>. Il passaggio
dall’amore all’odio è semplice quando
si percepisce il tradimento. In questo caso non è
ovviamente il fallimento del solo lavoro materiale a ferire
Lorenzi, ma la sconfitta del pensiero. Parlare però
della fase dedicata alla pittura come una parentesi legata
alla disillusione nell’opera di Lorenzi sarebbe
eccessivamente riduttivo. L’approdo non è
casuale; piuttosto una riscoperta, un ritorno. Riandando
agli esordi l’artista comincia a lavorare proprio
con carta e matita e il processo continua nella ricca
produzione di bozzetti legati a sculture realizzate o
rimaste semplicemente eternate in pochi schizzi. La scultura
è amore puro e incondizionato per Lorenzi, e certo
l’esperienza dell’incomprensione è
un dolore che solo temporaneamente lo porta a prendersi
una pausa dalla materia. La necessità di esprimersi
non si placa e anzi si acuisce la posizione di critica
nei confronti di una realtà superficiale con la
quale il confronto diviene sempre più pesante.
La seconda decade del 2000 porta nella mani di Luigi Lorenzi
una ricca serie di tecniche miste, tendenzialmente su
faesite, in cui visibilmente il centro dell’attenzione
dall’esterno passa all’interno dell’artista
stesso, che diviene protagonista e al contempo spettatore
di svariati “orizzonti”. Un ciclo di lavori
porta proprio questo titolo: emergono immagini di vita
quotidiana che in forma quasi di rebus testimoniano la
volontà di allontanamento dal pensiero corrente.
Interessanti anche gli acrilici che ritraggono lo stesso
Lorenzi in diverse situazioni paradossali, completamente
decontestualizzato dalla realtà (Senza meta o Pollo
n. 3). Nei lavori di questo periodo sparisce quasi del
tutto completamente il cromatismo per lasciare spazio
a superfici in bianco e nero, preferibilmente vibranti
non tanto per creare un effetto di movimento, quanto più
di fremito e disfacimento. Perché proprio questa
è la denuncia: l’incomprensione è
disgregazione esistenziale per chi crea e per chi non
capisce. Anche City, del 2011, attesta pienamente lo stato
di smarrimento in cui versa l’artista.
La serie di opere in 2D è molto più lunga,
a scapito di chi potrebbe pensare che una fase di crisi
creativa possa coincidere con una stasi produttiva. Sono
di questo periodo, infatti, numerosi altri lavori che
descrivono sentimenti di dicotomia e dissociazione dal
sentire comune, realizzati con un ottimo padroneggiamento
dei tratti e di un cromatismo meno acceso, pur assecondando
un certo gusto pop. L’intento continua a essere
di chiara critica rispetto a un presente che non riesce
a svestirsi dalle convenzioni per cogliere il non senso
propugnato sotto gli occhi di tutti dai media e dai ‘poteri
forti’. La risposta non arriva all’artista
da questi lavori, perché comunque e sempre è
la materia il punto di arrivo di Lorenzi. Lo stimolo a
trovare risposte è esistito fino a quel momento
nella fatica di lavorare la pietra, nel respirare la polvere
del legno o del ferro. Nell’aver voluto dominare
tutti questi materiali sovvertendo le leggi universali
che ne regolano l’esistenza in natura. La parentesi
pittorica, però, fatta di silenzio, isolamento
e rabbia, è foriera di nuovi stimoli che portano
Lorenzi a continuare la sua ricerca con nuovi linguaggi
da esplorare, da perfezionare, da vivificare. La scultura
ritornerà presto sotto inedite forme e manifestazioni.
RITORNI E PARTENZE
Lungi dall’essere stata una parentesi rivelatrice
di una crisi, il periodo dedicato al disegno e soprattutto
alla pittura per Lorenzi contribuisce in misura determinante
a rinnovare la sua determinazione a produrre nuovamente
utilizzando un linguaggio non più esclusivo come
quello della scultura, ma rielaborando e superando le
prove sia grafiche che materiche fino a quel momento sperimentate.
E’ il tempo di ritorni piacevoli e stimolanti partenze.
<<Ora voglio assicurarmi che le sculture fatte mi
appartengono e le sento vive e vicine. Così le
rivisito disegnandole di nuovo, ma in modo originale e
inconsueto, collocandole in un contesto di simbologie
rappresentanti ricordi e memorie; disegno su tele, usando
pastelli, sanguigna, grafite e carboncino: sarà
il “Viaggio di ritorno”. Alcune sculture le
disegno con grafite e sanguigna su cartoncino: inserite
in un paesaggio sintetico, ieratico e purificato saranno
le “Chimere”. Altre e sono in legno contaminate
ed aggredite da miserie e rovine, mentre quelle in pietra
sono vittoriose solo perché collocate in ambienti
naturali che richiamano la loro origine, cioè la
cava. Le chiamerò i “Blob” e i disegni
rappresentano sicuramente il mio stato d’animo in
quel momento>>.
Forse mai, come in questo momento, l’artista è
più vicino alla scultura: sembrerebbe paradossale
paragonare un’opera grafica al volume reale della
materia, alle sue asperità e alla sua vis espressiva,
ma ancora una volta i processi mentali di Lorenzi sono
profondi e trascendono le leggi naturali: non si tradisce
l’amore di una vita, un linguaggio che ha messo
a dura prova spirito e corpo. La grafica, il disegno,
allora, assumono la valenza di strumento analitico della
materia reale. Si costituisce un nuovo dialogo con i lavori
precedenti o addirittura con quelli rimasti solo a livello
progettuale. La pura scultura viene sublimata dal tratto,
anche policromo e dalla possibilità di trovarvi
una collocazione ideale. Scorrendo le carte si coglie
subito la ferma intenzione di concentrare lo sguardo sulle
linee scultoree di opere già esistenti, qui messe
in evidenza da una scelta cromatica netta: il rosso, infatti,
ora è il legno che fu, ora la pietra. I lavori
appaiono inseriti in contesti immaginativi dove si ritrovano
altri elementi archetipali cari all’artista, come
l’eterna sfera, segno dell’equilibrio raggiunto,
o i pieni e vuoti sempre di natura circolare. Non a caso
un ciclo delle nuove opere si intitola: Viaggio di ritorno
RA: siamo all’inizio delle seconda decade del 2000
e la necessità di riprendere in mano la propria
poetica, ripadroneggiando le forme seppure in modo diverso
rispetto a prima, è una esigenza impellente di
Lorenzi, dopo lo scontro, peraltro inevitabile, con un
pubblico e una critica non in grado di riconoscere un
linguaggio puro e libero nel coro sterminato di proposte
che l’arte
contemporanea si vanta di rappresentare. In queste recentissime
prove l’artista opta per un nuovo ritorno alle origini
non tanto dal punto di vista della scelta delle forme,
che si diceva vengono recuperate, ma piuttosto della tecnica:
sanguigna e carboncino, pastello e carboncino, grafite
e carboncino, sono solo alcuni esempi di come i materiali
(i diversi tipi di pietra o essenza) vengano ri-scolpiti
sul supporto bidimensionale. Si badi, però, che
non si tratta di una mera sostituzione: ogni foglio è
realmente il frutto di una rinnovata e sempre più
matura ricerca formale che arriva appunto a un risultato
inatteso, mai surrogato di una poetica o di un filone
passati. Piuttosto si potrebbe parlare di una nuova sintesi
di pensiero ed esecutiva. Il ciclo delle chimere si concentra
sullo spazio in cui la scultura prende vita, mentre i
‘blob’ costituiscono una ulteriore evoluzione
delle potenzialità volumetriche dei lavori su diverso
supporto.
L’esperienza intensa della carta appare risolutiva
del rigetto alla scultura tout court e infatti passa meno
di un lustro e Lorenzi sceglie di riprendere tra le mani
la Pietra di Varana. Porta del Desiderio può considerarsi
opera cardine di questa stagione produttiva perché
consacra questo passaggio esistenziale tra materie e linguaggi:
il senso di attraversare una dimensione nota per raggiungerne
una ignota da esplorare è rappresentato dall’apertura
che si crea fra due elementi simmetrici legati dal filo
inox e sovrastati e raccordati dalla sfera. Il pensiero
si fa via via più chiaro e pulito: un’opera
omonima, del 2013, aggiunge all’opera dell’artista
questa certezza attraverso la riproduzione di un lavoro
di almeno un ventennio prima, liberata nelle linee e nei
volumi da un sapiente lavoro di ‘igiene’ della
materia. Soggetto analogo, perché in Lorenzi il
pensiero è lineare, i capisaldi della poetica sono
costanti nel tempo, quasi assiomi. Evolve e si perfeziona,
invece, il linguaggio che ora è sempre più
pulito e incisivo, tanto da aver raggiunto l’apice.
L’attraversamento di quest’ultima fase, in
termini cronologici, dell’attività di Lorenzi
sta portando a una rosea fase produttiva in cui l’artista
ha ulteriormente portato a compimento il programma di
sintesi nella scelta dei materiali: si pensi al fatto
che la pietra è tornata a rappresentare situazioni
di equilibrio al limite assoluto (Peso del desiderio),
che presagiscono un massiccio utilizzo dell’illusione,
non soltanto per ciò che concerne le leggi della
gravità, ma anche della chimica: attraverso il
colore, approcciato nell’incontro con la pittura
e la grafica, il legno si immagina pietra o metallo, dando
vita a composizioni a cavallo tra la realtà e l’illusione
visiva e sensoriale: Bussola ingannatrice, o Musa incantatrice
sono il più felice connubio di pietra e legno,
stavolta, però, ciascuno simulando ciò che
di fatto non è.
Ripercorrendo l’opera di Lorenzi sono molti i pensieri
e le sensazioni che si susseguono. Di certo si coglie
una presenza concreta, più che mai viva, di una
personalità che ha realmente orientato tutte le
proprie energie nella ricerca. Una ricerca di valore sotto
molteplici aspetti: prima di tutto per il livello di approfondimento
della sperimentazione e del linguaggio, in continua evoluzione;
in secondo luogo per il lavoro costante e molto duro condotto
su materiali che hanno messo alla prova la resistenza
fisica e la perizia esecutiva; infine per la natura stessa
della materia via via prescelta, dalla pietra alle diverse
essenze, di cui l’ artista si è servito per
trasmettere il proprio messaggio. E anche nella produzione
bidimensionale tutto questo valore emerge chiaramente
dalla precisione maniacale con cui ogni microsegno è
posizionato sulla carta, perfetto nella sua unicità,
essenziale nel complesso dell’ opera. Quella di
Lorenzi è a tutti gli effetti un’arte contemporanea
estremamente concreta e determinante, un punto di forza
in uno scenario culturale ancora troppo spesso caratterizzato
da prove effimere, in molti casi già viste e ridondanti.
Monza 2017
Sabrina Arosio |
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