|
Morfogenesi
Sviluppo della forma scultorea nell’opera
di Luigi Lorenzi
La riflessione tra chiusura e apertura
della forma è endemica alla meditazione artistica,
come lo è in termini filosofici, letterari, poetici
quella tra pronuncia e ammutimento, fra parola e silenzio.
Si può anzi affermare che ogni artista finisca
col prendere in merito una posizione di stile che poi
diviene determinante nel suo cammino.
Così, tra una forma chiusa in sé, implicata
nella materia, e un’apertura plurima, esplicata
dalla materia, si decentra il lavoro di Luigi
Lorenzi che ora andiamo a scandire nelle sue accezioni
fondamentali - chiusa, aperta, dialogica, cronomorfa
e astratta - premettendo che intendiamo evitare di
“sistemare” la ricerca dell’artista
illudendoci che vi sia una semplice successione di modi
e periodi: l’ideologia progressiva in arte è
spesso fallimentare in quanto tende ad istituire gerarchie
indebite di valore, cronologie d’occasione, funzionali
ma anchilosate e non sempre veritiere. È cioè
più opportuno abbandonare una metafora lineare
circa gli sviluppi della forma d’arte, che andrebbe
in banale progressione lungo un’asse portante, per
considerare invece una pluralità di linee, di filoni
di lavoro condotti simultaneamente, o comunque compresenti,
in quanto a preoccupazione e ad aspirazione semantica
e formale. La metafora critica eleggerà quindi
l’idea di un procedimento formale in cui i vari
stadi sono autoinclusivi l’uno dell’altro
e vanno letti nelle loro fitte corrispondenze, nella logica
di un’opera complessivamente orchestrata e risonante,
in cui le singole sculture sono immesse in lavorazioni
cicliche di una medesima e sfaccettata istanza espressiva.
Vale a dire che l’opera può essere qui colta
nella sua specifica e appartata importanza se la si considera
come una morfogenesi della forma scultorea letta
nella sua stratificazione affettiva, biografica e intellettiva.
Il termine morfogenesi è composto dalla
radice greca morfè che sta per forma e
da genesi, anch’esso di derivazione greca
– genesis – che è origine,
derivazione, sviluppo e designa il processo noto
alla biologia ma anche alla geologia, dello sviluppo di
una forma o struttura: ebbene abbiamo qui l’opportunità
di utilizzare il paradigma morfogenetico per leggere criticamente
l’opera di Lorenzi come sviluppo complessivo di
una forma scultorea per stazioni inclusive l’una
dell’altra.
Di questo sviluppo abbiamo di certo in Lorenzi uno stadio
iniziale, comprovato in evidenza dalle opere prime: questo
stadio è dedito a una ricerca introflessa. Nella
forma chiusa l’intervento scultoreo riguarda la
messa in rilievo delle linee di tenuta centripeta di una
espressività tutta raccolta attorno al nucleo della
materia. In questi abbracci di pietra, Lorenzi concentra
la vicinanza esasperata all’intimità formale
intesa come ipotesi concettuale del non detto, del non
raffigurato. La tensione delle linee di incisione e rilievo
rivolte all’interno, con la metafora delle mani
strette, produce la suggestione di una sorta di apertura
rovesciata, nel senso che è tale l’entità
della chiusura verso il centro buio della pietra che questo,
non pronunciato né pronunciabile, diviene immenso
ed è probabilmente il soggetto autentico di quello
che sarà tutto il lavoro dell’artista. Sono
forme che depositano ai nostri occhi, nel loro cieco peso
di concisione e silenzio, l’istanza di una spiritualità
vertiginosa, come se tutte le linee di respiro estetico
fossero state girate e rivolte ad uno stato di apnea formale
in cui ciò che vediamo allude a ciò che
non possiamo vedere, lungo una superficie scultorea totalmente
priva di varchi, la cui forza è una solezza di
commovente necessità, di condizione esistenziale
più che ontologica, dove l’esasperazione
di un tratto evidentemente affettivo e forse traumatico,
lo traduce in una linea di intransigenza teorico/pratica.
Pur con l’elemento forzoso e angosciante che ne
deriva, si noti che questa inclusione del primo Lorenzi
è già tutta dedita a indicare l’entità
del suo potenziale ancora impronunciato, di un panorama
interno che proprio la forza della negazione annuncia
vastissimo..
Abbiamo poi una seconda – e ultima
– certezza: il lavoro scultoreo di Lorenzi è,
sempre, preparato dal disegno. È nel disegno, e
talora nell’acquarello, che l’artista aggancia
l’abbrivio del suo ragionamento ispirato, trova
la linea del percorso e abbozza nelle due dimensioni il
lavoro che accadrà, poi, nel volume. Questo fatto
è essenziale: Lorenzi infatti non è un artista
rapsodico né uno scultore che cerca nella materia
la forma che vi si supponga celata, rintracciabile a partire
dalla specificità della materia stessa –
una venatura nel marmo, segno che vi dormirebbe uno zigomo,
un nodo nel legno, dove sarebbe chiusa una palpebra –
tutt’altro il procedimento di Lorenzi: l’artista
trova la forma nel pensiero, l’intuisce
nella sensibilità, inizia a tradurla in segno sulla
carta, ne descrive un modello grafico parziale poi si
rivolge alla materia, la sceglie e, a questo punto, ne
cava letteralmente ciò che si è proposto.
Si tratta di un fare che esaurisce il tratto inventivo
nel progetto e concepisce l’atto scultoreo come
sua esecuzione, ovviamente non priva di deroghe, digressioni,
varianti ma complessivamente fedele al modello. In questo
metodo per modelli troviamo il carattere a suo modo “intellettuale”
del lavoro di Lorenzi, la sua tendenza ideale, atteggiamento
“platonico” di un artista che non persegue
delle forme trovate bensì le sue forme
elette.
Ed è pertanto nel disegno che si sviluppa il progressivo
schiudersi della forma chiusa verso un’estroflessione
delle linee che iniziano a curvarsi distaccandosi e intrecciandosi
in volute a cui non è estranea una componente ritmica
e musicale. Il richiamo a quel processo che portò
Kandinskij da una pittura ancora francamente figurativa
alla dimensione astratta e musicale della più alta
maturità, è d’obbligo ma non vincolante.
La musica interviene a latere del lavoro di Lorenzi, come
frequentazione ma anche come fonte, probabilmente inconscia
almeno in un primo tempo, di aggiornamento e innovazione
dei criteri di approccio formale. Dalla connotazione centripeta
e raccolta della forma chiusa l’artista emerge non
grazie a una progettualità “a freddo”,
raziocinante, ma grazie ad un lirismo, un afflato di tensione
e offerta che traduce la disperata concentrazione formale
in ostensione irriferita, puro dinamismo e quasi danza
di linee un tempo addormentate nel torpore di un centro
magnetico silenziato, forse offeso da qualcosa. Dagli
acquarelli in cui le volute musicali si sovrappongono
in paesaggi di velatura che anticipano nel chiaroscuro
la terza dimensione, lo scultore transla il suo nuovo
operato in forme soprattutto lignee dove l’apertura
melodica trova la sua ricaduta coreografica: sono atti
di danza, posture, inclinazioni, addirittura invenzioni
cordofone che citano strumenti musicali, queste opere
armoniche, leggiadre, di classica grazia, d’un’eleganza
flessuosa a cui l’artista sa condurre con perizia
artigiana e sapienza della materia, il legno - e talvolta
il bronzo - reso flessuoso ed esile come un corpo addestrato
o modulato e risonante come una cassa armonica o un prototipo
dal design dinamico di bolide armonico. Ma si noti che
questa messa in disponibilità, in risonanza, attinge
a un patrimonio di gesti a lungo meditati, un tempo riposti,
come se l’interiorità assoluta della prima
fase si fosse semplicemente srotolata mostrandosi al mondo.
Poi l’offerta da irriferita si
va di nuovo ad introflettere ma articolandosi in figure
doppie, dove lo scultore precisa il senso e la portata
della sua apertura nei termini di una dialettica formale
istituita per lo più nella misura e nel modello
della coppia: da un unico blocco di materia sorgono così
le posture conversevoli di figure bipolari, doppie, specchiate
o dialogate l’una nell’altra. È una
fase felice e aggraziata dove l’artista si fa delicatamente
esplicito nel consentire a dialoghi naturalistici, talora
al limite del figurativo, di soggiornare in forme di consueto
rigore, già protese verso l’astrazione, ma
come attardatesi qui, fra noi, a raccontare per piccole
scene il teatrino degli incontri e dei commerci umani.
È una scultura questa dei “dialoghi”,
sentimentale e ironica, affettiva ed erotica, talvolta
persino querula e un poco salottiera in taluni battibecchi
di forme puntute che si rintuzzano una all’altra
o si fronteggiano simmetriche, o in altre dove si cela
la gestualità del commercio amoroso, della trattativa
cortese, della schermaglia sensuale, con evidenti vezzi
di corteggiamento e conquista. La fase più estroversa
ed empatica di questo artista riservatissimo e schivo
talvolta fino alla timidezza, contiene una sua forza narrativa
e sostituisce la coreografia della danza, di cui si è
accennato, con un brogliaccio da commedia umana, dove
ci rispecchiamo tutti.
Questa adesione al dato vero degli incontri e dei rapporti
prelude a una consapevolezza ulteriore che, si rammenti,
include e prosegue gli stadi precedenti – o meglio:
precedentemente esposti soltanto per chiarezza
espositiva, ribadendo che i filoni di lavoro del nostro
artista sono comunque intrecciati, concettualmente e talvolta
anche cronologicamente sovrapposti in reciproche allusioni
e interferenze. Il dato ritmico, musicale che si distribuisce
nella pratica del dialogo e del racconto, si puntualizza
ora nella cifra del tempo: ancora una volta è la
musica il baricentro di una riflessione che è intellettuale
ma mai intellettualistica, la musica dei corpi e la dinamica
dei dialoghi si sintetizzano e precipitano in un fulcro
meditativo ancora chiuso e centripeto che individua nel
volume scultoreo il racchiuso motore del tempo. Compare
il richiamo toccante e atroce del pendolo: brevi e conchiuse
sfere di pietra sono sospese nelle campiture e arcate
interne alla forma aperta, ne divengono il cuore, animano
l’armatura formale di un palpito regolare e oscillante
che è metafora cronomorfa e cardiaca.
Solo in un caso la sfera si fa allungata “a pera“
attratta da una sorta di laringe o clitoride di desiderio,
e in un altro si inasta su un cavo d’acciaio e diventa
strumento illusorio di misurazione ritmica, metronomo
cerimoniale dell’esistenza. È la scultura
della vita pulsante e racchiusa, scoperta nella sua infermità
di organismo in fieri da un movimento scultoreo
che pratica una sorta di anatomia, apre la materia e la
riprogetta come osservazione “a torace aperto”,
disvelamento degli interni orologi, rilevazione del tenue
polso delle cose, calcolo lucido della misera durata,
cronografia e tentativo allegorico di misurazione, agnizione
improvvisa della caducità, indagine infine sulla
morte: queste sfere infatti che animano la scultura del
loro movimento pendolare, rallentano via via il loro oscillare,
si fermano, e soltanto una mano superiore e pietosa può
sopraggiungere a caricarle di un movimento nuovo, come
le povere meccaniche delle vite oscillano qua e là
per un tempo dato e poi si fermano, anelano dopo la stasi
finale a una ricarica eterna.
Dopo questa ricaduta al centro, nel cuore
che un tempo era alluso da una scultura tutta raccolta
sul suo perno, aggomitolata sul suo palpito, Lorenzi rivelerà
l’ultimo paesaggio visibile, che era forse il segreto
disperato di quella forma abbracciata tra sé: l’astrazione,
intesa come lettura del tragitto puro e solitario nella
galassia trascendente, navigazione a vista di rari e lenti
equilibri, perdita di ogni riferimento noto, espatrio
in una pagina disancorata che è già una
tavola metafisica.
Pavullo nel Frignano (Mo), maggio 2008
Paolo Donini
|
|